L'ordine monetario mondiale resiste agli ottant'anni di Bretton Woods

© Sven Klippel
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Servizio comunicazione istituzionale

2 Luglio 2024

In occasione della sua ottantesima ricorrenza, Edoardo Beretta, Professore titolare presso la Facoltà di scienze economiche dell'USI, ha ricordato l'evento che il 1. luglio del 1944 vide gli Stati Uniti d'America e i loro alleati gettare le basi per la nascita di due istituzioni: FMI e Banca mondiale. Di seguito vi proponiamo il testo integrale del suo intervento, pubblicato sulle pagine economiche del Corriere del Ticino.

Compiere ottant’anni e non sentirli. Ne è esempio l’avvenimento storico che prese inizio il 1. luglio 1944 nella località sciistica americana di Bretton Woods, allorquando nelle fasi cruciali del secondo conflitto mondiale si sedettero per tre settimane più di 700 rappresentanti di 44 Paesi per definire l’ordine monetario internazionale. Fra i «grandi assenti» spiccavano Germania, Giappone e Italia in quanto nazioni all’origine delle ostilità belliche sfociate nella Seconda guerra mondiale: fra i presenti, invece, Australia, Belgio, Brasile, Canada, Cina, Francia, Grecia, India, Regno Unito, Russia e Stati Uniti.

Una tappa fondamentale

Che si sia addetti ai lavori o, semplicemente, interessati alla storia ma anche all’attualità, la Conferenza di Bretton Woods (1-22 luglio 1944) rimane una tappa fondamentale sull’arco temporale del Ventesimo secolo in quanto le decisioni prese in quei momenti storici così convulsi e drammatici definiscono tuttora una molteplicità di meccanismi di funzionamento dell’economia monetaria internazionale. Facciamo subito alcuni esempi: il dominio del dollaro statunitense - tuttora, dato oggettivo sebbene progressivamente oggetto di contestazione da parte di Cina e Paesi emergenti è riconducibile proprio alle decisioni assunte in quelle tre settimane, in cui si convenne nei fatti che la moneta americana sarebbe stata l’unica accettata negli scambi commerciali e finanziari internazionali. In altre parole, le nazioni del mondo avrebbero dovuto disporre di dollari statunitensi per saldare i propri acquisti commerciali e finanziari in provenienza dal resto del mondo. Inutile sottolineare che la situazione non sia oggi diversa, se non per il fatto che dagli anni ’70 in poi la platea di monete a riserva internazionale (cioè spendibili transfrontalieramente) si sia ampliata includendo spesso la sterlina inglese - che ai tempi della fase finale del sistema aureo ( gold standard) a inizio del Ventesimo secolo era per spendibilità internazionale l’alter ego del dollaro statunitense - e alcune delle monete precorritrici dell’euro. Senza concedersi a rimpianti ma pur constatando l’inevitabile - se si fosse optato all’epoca per il «Piano Keynes» in rappresentanza del Regno Unito al posto del «Piano White» portato dagli Stati Uniti - la distribuzione di «pesi e contrappesi» in termini di ruolo monetario internazionale sarebbe stata (almeno sulla carta) più equilibrata in quanto la proposta britannica prevedeva un’unità di conto basata in qualche modo ancora sull’oro (e, non a caso, chiamata bancor) e di emissione contabile da parte di un organismo sovranazionale ( International Clearing Union) atta a compensare i saldi commerciali e finanziari internazionali. Il piano francese e quello canadese molto meno ricordati rispetto a quello americano e britannico - poggiavano invece rispettivamente ancor più sui metalli preziosi e sul ruolo di alcune (poche) monete considerabili a riserva internazionale.

Il mancato Bancor di Keynes

Sempre dagli Accordi di Bretton Woods derivano anche le istituzioni monetarie internazionali «gemelle» quali il Fondo monetario internazionale (FMI) e il gruppo della Banca mondiale, riguardo a cui lo stesso John Maynard Keynes viene ricordato da David D. Driscoll (1995) per aver commentato di «essere confuso dai nomi: egli pensava che il Fondo dovesse essere chiamato “ banca” e che la Banca dovesse essere chiamata “fondo”» [traduzione propria]. Che, in realtà, né l’FMI né la Banca mondiale siano banche (ma siano invece fondi) in quanto statutariamente privi di capacità di emissione monetaria (e dotati di sola capacità di intermediazione finanziaria) non è fondamentale in questa sede ma ben rende l’idea di come tuttora a livello globale non esista una vera e propria «banca centrale delle banche centrali ». Ma è sempre da quelle montagne del New Hampshire che discende anche il debito estero statunitense (25.984,6 miliardi di dollari su base lorda, stando ai dati del 31 dicembre 2023 del Tesoro americano) ormai strutturale, che non a caso inizia ad accumularsi a ritmi importanti nell’immediato secondo dopoguerra e comporta - sempre non per coincidenza - a partire dal 1971 (anno di demonetizzazione dell’oro) il primo disavanzo del conto corrente della bilancia dei pagamenti americana. Per capirci: se gli USA da un lato godettero per diversi decenni del privilegio monetario di disporre dell’unica moneta accettata internazionalmente per saldare transazioni commerciali e finanziarie, dall’altro furono (e sono parzialmente ancora) chiamati a rifornire il mondo intero della cosiddetta liquidità internazionale, cioè dei dollari statunitensi necessari agli scambi internazionali. La modalità principale per fare ciò consiste(va) nell’acquistare (in maniera crescente ed eccessiva) beni e servizi dal resto del mondo anziché produrli internamente. Tale esorbitante privilegio ( exorbitant privilege) come definito dall’economista francese Jacques Rueff nel 1971, fu, quindi, anche un peso esorbitante ( exorbitant burden come spesso ribattezzato) che ha reso il settore industriale americano dal secondo dopoguerra in poi profondamente dipendente dalle importazioni dall’estero con una bilancia dei pagamenti sempre più in disavanzo strutturale con un deficit annuo che ha raggiunto nel 2022 ben 971,6 miliardi di dollari.

La fine del sistema aureo

E fu proprio anche a Bretton Woods che si sancì il ruolo sempre più anacronistico dell’oro nei pagamenti internazionali suggellato definitivamente con la demonetizzazione dello stesso nel 1971 (e l’abbandono della convertibilità aurea del dollaro statunitense) e la vendita di un sesto delle riserve auree dell’FMI nel 1976. Che fu proprio a partire da quei decenni che il «metallo giallo» vide una crescita esponenziale nel suo prezzo (mai registrata nei secoli precedenti) e assurse sempre più a quel bene rifugio e asset, di cui tuttora si leggono le evoluzioni quotidiane, non è certo un caso. Bretton Woods è, quindi, una tappa fondamentale nella storia economicomonetaria per comprendere appieno parte dei fenomeni odierni influenzanti decisioni economico-politiche. Resta forse da domandarsi se (e quando) si renderà necessaria una «Bretton Woods 2» anche se - per il momento - tale scenario non pare all’orizzonte. Appunto: ottant’anni e non sentirli. Auguri, Bretton Woods!

* In allegato è possibile scaricare il PDF con l'intervento del Professor Beretta, sulle pagine economiche del Corriere del Ticino